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American Horror Story – 3×11/12 – Protect the Coven/Go to Hell

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Assodato, almeno per quanto mi riguarda, che l’intreccio di Coven si risolve in una congerie di scene incoerenti e inconsistenti – e senza, peraltro, che questo slegamento si trasformi mai in un antistoria (meta)narrativamente ricca –, che i suoi personaggi sono semplici «funzioni automatiche dell’intreccio» (e in questo sarebbero piaciuti ai formalisti), che la matassa confusa di temi – conflitto di razza, conflitto di sessi, conflitto di classe – non ha prodotto che altrettanto confuse vignette all’insegna del più rigido schematismo, l’unico godimento estetico che ancora ricavo da questa stagione, gargantuesca occasione sprecata, è di natura sensoriale, perché, quando immagine e suono si incastrano con l’esattezza di ben oliati ingranaggi – e succede spesso –, American Horror Story si conferma, se non altro, una serie dallo stile raffinato, suggestivo, inconfondibile.

Così, Protect the Coven – al di là della sconfortante conclusione cui va incontro la sottotrama del Delphi Trust – è un episodio mediocre anche perché non riesce a creare immagini filmiche durature, con la sola eccezione della sequenza in cui l’Axeman, travestito da cameriere, si prepara a sterminare i cacciatori mentre la telecamera si inventa inquadrature ingegnose per non rivelarci il suo volto che all’ultimo istante. Certo, ci sono altre scene spassose: quella in cui Myrtle decanta i pregi della zuppa escrementizia preparata da Madame LaLaurie – Cumin. Coconut. Cardamom. Mulligatawny soup! I’ve been transported to Rajasthan! –, per esempio, o quella in cui Cordelia si pianta una cesoia prima in un occhio, poi nell’altro. Pleonastiche invece le torture di Delphine, ritornata ex abrupto alle sue cattive abitudini, a ulteriore riprova dell’inconsistenza che ha afflitto tutta la seconda parte di stagione: la ridondanza narrativa è accentuata dalla pigrizia cinematografica, che ripropone scelte registiche viste già nella  première, per di più senza che la ripetizione sia sintomo di una precisa scelta di racconto per sottolineare la stolida meccanicità delle violenze. A ogni modo, ciò che difetta a tutte queste scene, a prescindere dal loro successo, è l’esibita artificiosità che, fin dalla prima stagione, rappresenta per quanto mi riguarda il carattere più interessante della serie.

Carattere che, invece, fa bella mostra di sé in Go to Hell, fin dal prologo sui Seven Wonders girato – da Alfonso Gomez-Rejon, nel caso ci fossero dubbi – nello stile di un vecchio film muto. Non c’è alcuna ragione narrativa per cui la descrizione lungamente attesa di questo rituale (che deve il nome a una canzone di Fleetwood Mac) sia girata con tecniche del cinema delle origini – intermittenze, didascalie descrittive, fondali dipinti, intensificazione dei gesti – mescolate a tecniche di montaggio più tarde. Eppure, è proprio in questa gratuità che risiede la bellezza della scena, nel suo essere scopertamente camp, intendendo con questo termine la «sensibility of failed seriousness» e soprattutto la «theatricalization of experience» di cui parla Susan Sontag. L’effetto si ripete più tardi nella visione di Cordelia, trionfo di curve barocche e bruschi cambi di prospettiva, nelle pugnalate darioargentiane inferte all’Axeman, nel grandangolo che racchiude tutta la congrega – più l’inutile Kyle – davanti al ritratto di Fiona, apparentemente caduta sotto l’ascia dell’amante.

Si tratta di un manierismo che può perfino infastidire, ma che in questo contesto trovo efficace, perché, allontanandosi da qualsiasi pretesa di rappresentazione naturalistica, e anzi palesando i procedimenti filmici della paura – primissimi piani che escludono il resto della scena dall’inquadratura, amplificazione degli effetti sonori, soggettive ecc. –, enfatizza lo straniamento dello spettatore, e di conseguenza l’inquietudine inscritta nelle immagini.

Di Coven posso quindi non apprezzare la scrittura – al di là dei folleggianti non sequitur di Myrtle, come «In the fall, the rotting leaves smell like an Olympian’s ejaculate!» –, l’intreccio, i personaggi, i temi; continuo, invece, ad ammirarne lo stile.

Tutti i voti

Al netto del finale, Coven è per ora la stagione visivamente più appagante e narrativamente più insoddisfacente di American Horror Story, e non c’è un bollino capace di rappresentare in modo adeguato questa discrasia. Pertanto, li metto tutti: assegnate quello che preferite.

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