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American Horror Story – 3×10 – The Magical Delights Of Stevie Nicks

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Le serie di Ryan Murphy sono delle montagne russe, specie dal punto di vista delle reazioni degli spettatori. American Horror Story ha il pregio di avere plot stagionali che si rinnovano del tutto (ambientazione, storia, personaggi) tranne che per (alcuni) attori a ogni anno, che è poi uno degli assi nella manica della serie. Murphy è un autore ridondante e non proprio sottile, le sue serie al secondo capitolo già iniziano ad arrotolarsi su se stesse, quindi un restart annuale non può fare che bene.

Coven, in particolare, aspira a prendersi la corona della migliore stagione finora prodotta di American Horror Story. Eppure, arrivati al decimo episodio, a un passo dalla conclusione dell’arco narrativo, volendo dare un giudizio complessivo (in fieri) ci rendiamo conto che non mancano certo i difetti. E, cosa più seccante, sono più o meno gli stessi da tre anni a questa parte, più qualcuno da imputare più specificamente al genere prescelto da Coven.

C’è, ad esempio, sin dall’inizio di questa serie una certa nube di superficialità a oscurarne anche gli innegabili pregi. Un problema che Murphy e Falchuk, credo, neanche si sono posti. A loro va bene così, planare velocemente sui generi e sui topoi senza stare troppo a tirarla per le lunghe. Che può essere un modo interessante di vederla e anche di successo (specie se fa leva su ottimi interpreti, e qui ce ne sono di ottime attrici), ma è anche un modo destinato a mostrare la corda, a rivelare il cartone dietro una scenografia apparentemente perfetta. Ed è davvero difficile capire come si possa fallire nello sfruttare un’ambientazione così caratteristica come New Orleans. Va bene, non tutti siamo David Simon, ma gli umori e l’unicità di questa città, in American Horror Story sembrano non esistere per niente. A volte ci si dimentica di essere a New Orleans, senza contare che spesso si ha la sensazione che non ci siano altri abitanti nel quartiere a parte le nostre streghe.

Rispetto alle stagioni passate Coven è al tempo stesso un’iniezione di novità (di approccio prima che di ambiente) e un retaggio di vecchi pesi. È indubbio, ad esempio, che gli ha fatto bene il cast quasi all women, capeggiato da una Lange suprema in tutti i sensi, ma che pure si è rivelata, alla fine dei conti, come notavano anche i miei colleghi, voce e corpo di un personaggio non molto diverso da quelli di Murder House e Asylum, e cioè una donna ossessionata dal tempo che scorre, dilaniata tra egoistici istinti di autoconservazione e una più aperta propensione al bene, soprattutto incapace di unire queste due rive della sua vita in un processo senza danni.

Ecco perché questo è stato soprattutto l’anno di Marie Laveau, una Angela Bassett che così badass non l’avevamo mai vista. È stato anche l’anno, mancato, di Katie Bates: la sua Madame LaLaurie non solo non appare in questo episodio, ma non viene neanche menzionata, abbandonata all’oblio del suo destino di… dipartita, nel senso letterale del termine.  Il suo personaggio sottolinea bene i difetti di American Horror Story, e cioè infilare degli input perfetti, affidandoli ad attori altrettanto perfetti, per poi zampettare sul posto, congelando i buoni spunti in ruoli stantii (nel caso della Bates un risicato comic relief).

Fortuna dunque che c’è Marie Laveau. E il plot twist di ribaltare gli schieramenti della guerra tra streghe è stata una delle migliori scelte degli autori. Angela Bassett e Jessica Lange, insieme, una accanto all’altra, sono un distillato perfetto di ciò che vorremmo da American Horror Story, ogni settimana: scontro di ego, più o meno velato da un’alleanza di comodo, travasato in due forti personalità (i personaggi meglio scritti della stagione, senza dubbio) che si studiano a ogni passo e che trovano, pur nelle divergenze, alcuni punti di contatto e li fissano e osservano come due generali d’altri tempi, come due avversari che trovandosi spalla contro spalla imparano sì a rispettare alcuni elementi della personalità dell’altro ma senza mai dimenticare che avversari si resta. Che questa è una tregua. Inoltre, da un punto di vista strettamente tecnico, l’interpretazione sottile e insieme ingombrante (nel senso migliore del termine) della Bassett, la candida automaticamente a diventare la prossima costante e regina di American Horror Story (visto che la Lange ci saluta).

Permangono però i problemi. Permane uno stuolo di personaggi poco incisivi, linee narrative parallele, inutili, incrociate a forza col plot principale, ma con le cuciture ben in evidenza. Non mi so spiegare altrimenti la storyline della madre di Luke, risolta in fretta e furia in questo episodio, portando a compimento anche il periplo di Nan, risolto anch’esso con la mano sinistra e con qualche forzatura. L’idea è affascinante, la realizzazione meno. Che Marie e Fiona si uniscano per ucciderla e offrirla a Papa Legba – nella cultura vudù uno spirito mediatore tra l’uomo e il dio supremo, che qui assume però una funzione più vicina al demonio cristiano accaparratore di anime – è una buona idea perché insieme solidifica l’alleanza tra le due e le fa agire in modo spregiudicato e da vere streghe. Anche perché sinora, al di là delle pratiche esteriori, questo covo è caratterizzato più come una gruppo di zitellone acide che di vere e proprie sorelle di Satana. È un po’ meno credibile il fatto che Papa Legba accetti questa nuova “offerta” senza quasi battere ciglio, anche se la sequenza rinnova in modo gustoso il vecchio proverbio delle donne che ne sanno una più del diavolo. E qui parliamo di donne che sono streghe. Il vantaggio dell’introduzione di Papa Legba sta tuttavia anche nella misura in cui approfondisce e soprattutto umanizza, con la scrittura e non con la semplice delega all’arte della Bassett, il personaggio di Marie.

Non si può essere altrettanto clementi, però, con gli altri personaggi. Di Kyle si sono perse le tracce. Non che ci importi molto, il che la dice lunga, proprio perché la sua storia non c’entra nulla con la stagione; potrebbero essere eliminati, lui e la sua storyline, concentrando gli sforzi sui personaggi principali. Quello di Kyle poteva essere un percorso interessante, piazzato però non solo nel contesto sbagliato, ma relegato tra due donne sbiadite per scrittura e interpretazione: mi riferisco ovviamente a Emma Roberts e soprattutto a Taissa Farmiga, mai più inutile come quest’anno. Non che il personaggio di Montgomery abbia la meglio. Questa settimana almeno la vediamo più attiva e pericolosa, più impegnata a spianarsi la strada come nuove Supreme, ovviamente eliminando l’erede diretta. O almeno provandoci. Devo dire che mi sarei aspettato un po’ più di resistenza e astuzia da parte di Misty May, ma credo sia ovvio che sentiremo ancora parlare di lei.

The Magical Delight of Stevie Nicks è un episodio preparatorio, quello che apre la strada al gran finale che a questo punto ci auguriamo sia esplosivo come alcuni degli episodi di questa stagione. Difficile capire dove andranno a parare, se tutto confluirà nello scontro tra le giovani per lo scettro di Suprema o se saranno le “anziane” a contendersi lo show down coi cacciatori di streghe. Ma se avremo altri confronti, altre sequenze che vedono la compresenza di Angela Bassett e Jessica Lange, potremo sopportare qualsiasi caduta con gli altri personaggi. Queste due attrici/personaggi hanno una tale fiamma da incenerire qualsiasi critica si voglia muovere allo show.  Ed è su questo duetto che erigo un voto forse non proprio meritatissimo, per un episodio che tra alti e bassi e medità e pezzi di plot del tutto dimenticati, viaggia continuamente su un sottile filo tra la mediocrità e la piena sufficienza.

Stevie Nicks appare giusto per una strizzata d’occhio alla realtà, un’ospitata gradevole ma per niente sostanziale dal punto di vista dell’intreccio. Nulla porta, nulla toglie. Sta lì giusto per infilare un crossover spurio tra due creature murphyane: le streghe e gli alunni canterini.

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